Gregorio il teologo fu “amico del cuore” di San Basilio (di cui abbiamo già parlato). Portava lo stessa nome di suo padre che fu dapprima seguace degli Ipsistari – coloro che, di matrice giudaica, adoravano il Dio altissimo (Ipsistos)- poi, rifiutata quest’eresia, nell’anno 325 venne battezzato, prima di sposarsi con la cristiana Nonna e diventare, pochi anni dopo, Vescovo di Nazianzio. Il giovane Gregorio studiò prima alla scuola di Cesarea, poi in Alessandria ed infine ad Atene, col suo amico Basilio…nell’immenso mare della filosofia greca, prima di giungere definitivamente nel porto dell’evangelo. Sembra rimase ad Atene più tempo rispetto a Basilio, insegnando anche retorica; ma non tardò a raggiungere Basilio per ritirarsi nel “gioioso” deserto, nel vicino Ponto.
Gregorio divenne monaco per ubbidire ad una sua predisposizione, ma anche per una promessa fatta a Dio che lo salvò facendolo uscire incolume dalle acque agitate del mare di Partenio in cui cadde un giorno, mentre da Alessandria stava raggiungendo Atene.
Abbandonò quindi il mondo, perché il suo cuore si commuoveva spesso per le avventure della vita ed immaginava di trovare asilo nel deserto monastico. Poi, sciupato dalla vita eremitica, di nuovo tornò nel mondo, richiamato dal bisogno di una vita sociale piena di opportunità.
E’ egli stesso a descrivere quest’instabilità del suo carattere nel discorso scritto dopo la sua fuga dall’eremitag-gio del Ponto, dal titolo “Peri ierosinis” (“Intorno al sacerdozio”, ma si trova anche col titolo “Apologetico” o “discorso secondo”). Qui descrisse, con molta acutezza e conoscenza teologica, qual’è la professione del sacerdote e quale deve essere il ruolo del vescovo.
Vi si trova anche descritto quale sentimento lo aveva condotto alla vita eremitica:
“In seguito s’insinuava in me un dolce desiderio del bene della vita tranquilla e ritirata, della quale mi ero innamorato dall’ini-zio…Questa vita io l’avevo promessa a Dio in mezzo ai più grandi e terribili pericoli e
l’avevo solo sfiorata rimanendo però nel vestibolo, così che il desiderio era stato maggiormente infiammato dalla breve esperienza. Non sopportai quindi di essere torturato e di essere spinto in mezzo al clamore e, per così dire, di venir strappato con forza dal santo asilo offertomi da questo genere di vita. Niente infatti mi sembrava tanto importante quanto chiudere la porta alle sensazioni corporee, uscire dalla carne e dal mondo, raccogliermi in me stesso, non attaccarmi a nessuna delle cose umane, se non ce ne è una necessità assoluta, dedicarmi a me stesso e a Dio per vivere al di sopra delle realtà visibili e ricevere su di me i riflessi divini sempre puri senza la contaminazione delle impronte delle cose che quaggiù vanno errando, essere e sempre divenire immacolato specchio di Dio e delle realtà divine, aggiungendo luce a luce e sostituendo la chiarezza all’oscurità, cogliendo già con la speranza il dolce frutto della vita futura per unirmi agli angeli, rimanendo ancora sulla terra dopo averla lasciata ed essere stato innalzato dallo Spirito”. In molti modi e molto poeticamente ritorna al suo profondo desiderio per la vita eremitica ed enumera poi i sentimenti umani che lo hanno riportato nel mondo. Primo tra questi sentimenti era il rivedere amici e fratelli in quanto “sentiva che anche loro (lo) desideravano, perché non esiste amore più grande di quello che viene corrisposto”. Secondo sentimento era l’amore per il vecchio padre e terzo la voce della Chiesa che lo chiamava a servire Dio.
Da una parte aveva paura di non essere degno, dall’altra parte non poteva non obbedire, vista la situazione in cui si trovava la chiesa: “Oltre a ciò provai allora un sentimento, non so se rozzo o nobile, ma è certo che lo provai. Mi vergognai degli altri, quanti, senza essere affatto migliori, anzi è gia tanto che non fossero molto peggiori, con mani immonde, come si dice, e con le anime non iniziate si introducono nei misteri più santi e, prima di essere divenuti degni di avvicinarsi al sacro, si impadroniscono della tribuna, si accalcano e si spingono intorno alla santa mensa, non pensando che questo ruolo che occupano sia indice della virtù che uno possiede, ma solo un mezzo di sostentamento. Non lo vedono come un servizio di cui rendere conto, ma come un potere sfrenato. E sono quasi più numerosi di quelli su cui esercitano il loro potere, miseri per la riservatezza di cui sono oggetto, degni di compassione per lo splendore esteriore che mostrano, cosicché, mi sembra, col progredire del tempo e del male, non resterà più nessuno su cui essi esercitino il potere, dato che tutti vogliono insegnare invece che apprendere da Dio, secondo la promessa, e tutti si fanno profeti, cosicché “anche Saul profetizza”, secondo l’antico detto divenuto proverbio. Sebbene anche in altri tempi altri errori si siano sviluppati fino al loro culmine e poi abbiano avuto termine, non c’è mai stato in nessuna circostanza niente di così evidente come oggi fra i cristiani sono evidenti tali ignominie e tali peccati. Se porre un freno a tutto ciò è superiore alle nostre capacità, non costituisce però la parte più insignificante della religiosità odiarlo e provarne vergogna”.
Dopo il primo ritorno dal Ponto, Gregorio fu consacrato prete dal vescovo, suo padre, e dopo il secondo ritorno, quando san Basilio divenne vescovo di Cesarea, questo gerarca costrinse il suo amico ad accettare il vescovato della piccolissima città di Sasima. In questo luogo, l’eccellente studioso di Atene e maestro, si sentì in esilio. Gregorio non dimenticò facilmente questa ingiustizia e nelle sue poesie così descrisse quell’epoca:
“così vivevamo ad Atene
faticando insieme per la cultura
e uno era il nostro pensiero, non due.
il miracolo della Grecia!
tutto viene disperso, buttato a terra
venti portano le vecchie speranze.
dove si può andare?
Mi accetteranno le belve?
Delle quali la maggioranza avranno fede,
Come a me sembra?
Tutta questa tristezza che esprime Gregorio, nonché la critica severa contro il suo amico Basilio, testimonia che l’amicizia di due degni cristiani, non fu senza problemi… Gregorio non rimase molto in quel villaggio; dopo poco tempo si avvicinò al padre per aiutarlo nella pastorale della chiesa di Nazianzio. Insegnava al popolo di questa città e contemporaneamente lo difendeva contro gli abusi e le pressioni dell’autorità politica, diventando così, con la sua virtù, ma anche con la cultura ed il parlar bene, il protettore del popolo, attività che diede tanta gloria e potere al sacerdozio durante i primi secoli cristiani. In effetti, le istituzioni politiche del mondo antico che difendevano i diritti del popolo e lo proteggevano dall’onnipotenza dei governanti, erano del tutto perse. Nessuno poteva reagire all’onnipotenza dell’impe-ratore e dei suoi rappresentanti nelle province. In quel momento la Chiesa alzò la sua voce ed i suoi rappresentanti più degni non cessarono mai di difendere gli interessi del popolo e di chiedere giustizia per lui, nel nome della bontà di Dio e dei principi dell’evangelo. Il pulpito della chiesa sostituì la tribuna degli antichi politici, l’Ecclesia dei fedeli, l’ecclesia del popolo antico. Certo che ora i rappresentanti della chiesa cristiana, vescovi e sacerdoti, non cercavano di convincere i potenti nè con il sentimento dell’amor di patria, nè con la gratitudine dei molti e neppure con la paura che provoca la trasgressione delle leggi dello Stato. Anziché parlare dell’amore per la patria, parlavano dell’amore di Dio; anziché parlare della gratitudine dei molti, parlavano della gratitudine di Dio; anziché parlare delle leggi umane, parlavano delle leggi di Dio; anziché parlare della responsabilità politica, parlavano del giudizio di Dio. Tuttavia, se le armi usate da questi difensori del popolo erano diverse, lo scopo era uguale: la difesa dei poveri, dei deboli, di quelli che subivano ingiustizie. Se oggi l’intervento della chiesa nella politica viene considerata dannosa perché la nostra società ha le istituzioni necessarie per la difesa del popolo, in quell’epoca era assolutissimamente necessaria perché la società era completamente nelle mani di una monarchia assoluta e non esisteva nessuna protezione contro gli abusi dell’imperatore e dei suoi rappresentanti.
Gregorio fu anche un difensore della fede ortodossa contro gli ariani (che sotto l’imperatore Valente stava ancora trionfando). Ma arrivò il tempo in cui l’ortodossia uscì vincitrice contro i suoi nemici interni, come anche contro il paganesimo, grazie alla volontà del grande Teodosio divenuto imperatore dell’impero romano dell’oriente. Teodosio affronta i pericolo dei Goti nell’oriente non tanto con un’azione militare, perché l’esercito Romano era terrorizzato da loro e non accettava di combattere corpo a corpo contro di loro, ma con una diplomazia eccellente: furono così costretti alla pacificazione. Dopo la pace con i Goti in oriente, Graziano fu ucciso in occidente, abbandonato dal suo esercito, mentre Massimo veniva dichiarato imperatore. Valenziano II, che era ancora ragazzo ed era imperatore dell’Italia e dell’Africa, fu costretto ad accettare Massimo quale Imperatore dell’impero nelle regioni più occidentali. Teodosio non poté intervenire per vendicare Graziano, suo benefattore, poiché egli lo fece con-governante dell’impero per le regioni orientali, impegnato come era ad ostacolare l’invasione degli Ostrogoti: alla fine ne uscì vincitore, anche per i problemi interni dell’impero.
In effetti Teodosio cercò di metter fine alla lite fra ortodossi ed ariani che provocava molte difficoltà all’impero d’Oriente. Così nel 380 fece un’ordinanza con la quale trionfò l’ortodossia. Quest’ordinanza diceva che tutti i cittadini dell’impero dovevano seguire lo stesso dogma professato dal papa di Roma Damaso e l’arcivescovo di Alessandria Pietro. Con la stessa ordinanza, Teodosio permetteva solo a questi cristiani di chiamarsi “cristiani cattolici” (universali) e coloro che non avessero accettato questo dogma, sarebbero stati giudicati, non solo da Dio nel giorno del giudizio, ma anche dalle leggi dello stato. Con questa legge Teodosio cercò d’innalzare l’ortodossia nella capitale dove l’arianesimo all’epoca di Valente era diventato molto potente. Quell’imperatore (Valente) aveva tolto il possesso delle chiese agli ortodossi per darlo agli ariani. Gli ortodossi però, che erano molto numerosi, non potendo svolgere le loro celebrazioni, pensarono dopo la morte di Valente di nominare loro arcivescovo un uomo importante, che con la sua virtù, cultura e forza di parola potesse tener testa agli ariani. Per questo, chiamarono Gregorio che accettò e venne a Costantinopoli dove insegnò i dogmi Trinitari secondo il Concilio di Nicea, in un piccolo tempio che si chiamava Sant’Anastasia. Molto presto con la sua virtù e forza di parola riunì intorno a se una grande folla che andava a sentire questo sant’uomo in un piccolo tempio, sperando nella resurrezione del dogma ortodosso. Gli ariani cominciarono a preoccuparsi e cercarono di mandar via Gregorio dalla capitale. Ma l’ordinanza di Teodosio, abbiamo visto, vanificò i piani degli ariani perché l’Imperatore mandò via Dimofilo (arcivescovo ariano) per offrire il trono arcivescovile di Costantinopoli a Gregorio. Gregorio, pur rifiutando questo onore, fu costretto ad essere insediato nel tempio “metropolitico” della capitale.
Quel giorno fu degno di nota; giorno di trionfo per gli ortodossi e maledizione e terrore per gli ariani; giorno in cui Teodosio, circondato dal suo esercito, condusse il sacro uomo nel tempio più importante della capitale, che fino ad allora era appartenuto gli ariani. La tolleranza religiosa che esisteva prima, all’epoca di Costantino, adesso cessava di esistere a causa di una lotta senza esclusione di colpi dei due dogmi cristiani. Gli ariani subivano ora tutto ciò che essi avevano fatto patire agli ortodossi per tanti anni e, quella azione dell’imperatore che Gregorio caratterizza come sconfitta e caduta per gli altri cristiani, diventa il trionfo più santo e bello.
L’arcivescovo si comportò con grande bontà verso gli ariani e cercò di convincerli con la parola piuttosto che con la violenza. Eccetto questo, egli conservò la povertà dei primi cristiani, malgrado vivesse attorniato da immensa ricchezza e comodità come quella esistente alla corte imperiale. Non cercava di influenzare il popolo, ma lo attraeva con la sua virtù e la forza della sua parola. Vivendo così, attrasse sicuramente l’odio dei cortigiani dei quali egli non apprezzava il comportamento, né la loro vanità. Attirò l’ira dei seguaci del nuovo dogma in quanto vedevano che lui si comportava con amore verso gli ariani e non era vendicativo. La posizione difficile di Gregorio sul trono di Costantinopoli aumentò anche dopo il secondo concilio ecumenico, convocato a Costantinopoli nel 381 da Teodosio; questi voleva buttare fuori dalla chiesa le eresie apparse nell’epoca ariana, regolare alcune liti apparse attorno al legittimo possedimento dei troni arcivescovili e far trionfare l’ortodossia. Questo sinodo condannò gli ariani Sabelliani, Pneutomachi e Apollinari . L’opinione diffusa che questo concilio ha solo aggiunto al simbolo della fede di Nicea l’articolo sullo Spirito santo non è corretta. Molti ricercatori affermano che questo concilio, dovendo fare fronte alle nuove eresie, cambiò il simbolo delle fede di Nicea. Ma questa opinione non è corretta. Prima di tutto il sinodo di Costantinopoli non poteva cambiare il simbolo della fede di Nicea dato che esso all’inizio non era un sinodo ecumenico. In effetti Teodosio convoco’ questo sinodo solo come un sinodo dell’impero orientale, perché ancora non era l’unico imperatore Romano. Un anno dopo venne chiamato ecumenico dai padri che avevano partecipato ad esso, ma solo perché rappresentava l’intero stato orientale. Anche i sinodi d’Africa nella stessa maniera venivano chiamati ecumenici (universales). Il terzo concilio ecumenico (431) cita solo il sinodo di Nicea, mentre il falso sinodo del 449 cita solo il primo e il terzo (431), mentre il terzo (431) lo chiama secondo. Il secondo concilio ecumenico viene riconosciuto ecumenico dal sinodo di Calcedonia (451), in questo senso viene riconosciuto questo concilio come secondo anche dall’occidente.
Ritornando ora al simbolo della fede, il secondo concilio non poteva quindi cambiare il simbolo della fede di Nicea, non solo perché – come abbiamo visto – non era ancora un concilio ecumenico, ma anche perché il primo canone del secondo concilio ecumenico diceva che le decisioni di Nicea dovevano restare immutate “la professione di fede dei 318 santi Padri, raccolti a Nicea di Bitinia non deve essere abrogata, ma deve rimanere salda”. Se il sinodo di Costantinopoli avesse cambiato il simbolo di Nicea, non avrebbe certo scritto questo canone. Per questo è molto più probabile che il secondo concilio ecumenico, dato che doveva fare fronte a nuove eresie, fu costretto, per non abolire il simbolo di Nicea, ad articolare un nuovo simbolo della fede. E’ evidente che il simbolo della fede di Costantinopoli venne considerato meno importante di quello di Nicea. Per questo, alcuni li riunivano tutti e due e li chiamavano simbolo di Nicea (Antiocheni), altri si limitavano solo al simbolo di Nicea (Alessandrini). Il quarto concilio di Calcedonia (451) mise subito dopo il simbolo di Nicea anche il simbolo di Costantinopoli ed aggiunse queste parole “basta questo saggio e portatore di salvezza della grazia divina simbolo per arrivare alla completa pietà e conoscenza” , riferendosi a tutti e due i simboli. Come dunque il sinodo di Calcedonia riconobbe il secondo concilio di Costantinopoli quale concilio ecumenico, allo stesso modo anche il simbolo di Costantinopoli, che d’ora in avanti rimarrà per giungere fino a noi. Il simbolo del secondo concilio ecumenico prese forma da precedenti antichi simboli e dalle decisioni del concilio di Antiochia (379). Tale concilio, che condannò gli Pneumatomachi, ebbe come presidente Meletio, vescovo di Antiochia, che fu presidente anche del secondo concilio ecumenico. Dopo la sua morte, avvenuta durante il concilio, la presidenza fu di Gregorio.
Il secondo concilio ecumenico confermo’ l’elezione di Gregorio al trono arcivescovile della Nuova Roma. Ma Gregorio dovette affrontare un problema assai difficile. Gregorio era infatti amico di Melezio che, come abbiamo visto, era vescovo di Antiochia e presidente del secondo concilio ecumenico. Questo vescovo era anche un omoioousiano, eletto dagli ariani in sostituzione del vescovo ortodosso deposto Eustachio, per questo non riconosciuto dagli ortodossi (Eustachiani). Quegli ariani (omoiousiani) erano più vicini agli ortodossi. Credevano giustamente nella distinzione fra Padre e Figlio (due persone distinte), ma non riconoscevano il termine “consustanziale” del primo concilio ecumenico. Erano però pronti ad accettare il termine “simile sostanza” (omoia ousia), cioè che la sostanza del Padre del Figlio e dello Spirito sono simili (omoia). Per essere onesti, gli omoiousiani ancora credevano che la parola “sostanza” e la parola “ipostasi” fossero la stessa cosa. Per questo non potevano riconoscere che il Padre e il Figlio avessero la stessa sostanza, parlavano allora di tre ipostasi nella Trinità, per non fare confusione fra Padre e Figlio, come fece Sabellio. Dopo la chiarificazione di Atanasio e ancor piu’ dopo la chiarificazione teologica di Basilio e di Gregorio, la maggioranza di loro diventano ortodossi riconoscendo il consustanziale di Nicea. Meletio dunque, essendo omoiousiano, era molto vicino all’ortodossia. Per questo gli ariani di Antiochia elessero un altro vescovo. Molti cristiani pero’ rimangono fedeli a Meletio. Il sinodo di Alessandria del 362 mise le basi dell’unione dogmatica ed ecclesiastica fra omoioousiani ed ortodossi, fra Meletiani e Eustachiani. L’unione però ecclesiastica non si è potuta avverare perché in Anthiochia arrivo’ il vescovo Lucifer, esiliato da Karalis (Cagliari). Lui consacro’ Pavlino, vescovo ortodosso. Alessandria, Roma e i vescovi Illirici riconoscono Pavlino, mentre gli altri confermano Meletio (scisma Meletiano). Basilio e Gregorio erano amici di Meletio. Il vescovo di Alessandria Petro voleva che diventasse arcivescovo di Costantinopoli il cinico Massimo, non certo Gregorio. Per questo lo consacrò vescovo, quindi si recò a Salonicco per incontrare Teodosio. L’imperatore però non accetto’ Massimo, confermando vescovo Gregorio. Melezio, nel secondo concilio ecumenico, impedì quindi ai vescovo di Alessandria ed Illiria di prendervi parte, accusandoli di non riconoscerlo come arcivescovo di Antiochia (Scisma Meleziano). Quando durante il secondo concilio ecumenico muore Melezio, Gregorio, diventa, come abbiamo visto, presidente del concilio e sacrifica la sua amicizia personale. Per portare pace alla chiesa propone ai vescovi che erano presenti di non fare un altro vescovo di Antiochia, ma di accettare Pavlino, per unificare gli omoioousiani con gli ortodossi, anche ecclesiasticamente. Ma essi, volendo rimanere fedeli alla memoria di Melezio, rifiutano la proposta. Allora Teodosio invito’ i vescovi di Alessandria sicuro del loro appoggio alla posizione di Gregorio. Essi invece non gli diedero fiducia, a causa della sua amicizia con Melezio. Gregorio non riuscì a far prevalere la sua tesi, si ammalo’ e divenne estraneo ai giochi politico-religiosi. Al suo ritorno venne contestato anch’egli, basandosi sul XV canone del primo concilio ecumenico, in base al quale non era lecito ad un vescovo trasferirsi da una sede all’altra. Lui infatti era anche vescovo di Spasima: situazione molto difficile. Gregorio non era una persona che poteva reggere a simili battaglie. Non aveva amore per la gloria, né il desiderio di lottare per il trionfo delle proprie convinzioni. Così quando vide la confusione che si creava nel sinodo a causa sua, diede le sue dimissioni con ogni umiltà. Rivolgendosi al sinodo disse:
“Uomini pastori e compastori del popolo di Dio. Non è degno di voi quanto agli altri insegnate la pace, che voi fra di voi fate la guerra; come convincere gli altri di andare d’accordo se voi non siete uno fra di voi? E se io sono la causa di questo dissenso, non sono meno composto del profeta Giona; buttatemi in mare per cessare il mar mosso che ha me come causa. Anche se sono innocente sono deciso di subire tutto per farvi diventare uno. Mandatemi via dalla Città, mandatemi fuori dal trono arcivescovile. Amate solo la verità e la pace come il profeta Zaccaria. Dovete essere coraggiosi e non devono influenzare le vostre decisioni i miei dolori”
Contemporaneamente Gregorio diede le sue dimissioni anche all’imperatore. Con estrema velocità e facilità queste dimissioni furono accettate. Gregorio non ebbe più dubbi; chiamò il popolo e tutto il sinodo degli arcivescovi nella grande Chiesa di Costantinopoli, dove annuncio’ pubblicamente la propria decisione e la sua partenza, con il “Discorso di addio davanti a 150 vescovi”.
Lo spettacolo fu enorme perché doveva commuovere tutti e mai la grandezza retorica arrivo’ a tale altezza. Fece l’apologia della sua vita, delle sue difficoltà, delle sue lotte per la fede e la salvezza del popolo. Colpì molto quando paragono’ l’amore del potere dei vescovi alle scommesse astute dell’ippodromo, poi tornò a criticare se stesso perché si era comportato senza pietà verso gli sconfitti nemici della fede. “Mi accusano – disse – che, mentre ero a capo di una chiesa che godeva l’appoggio e l’aiuto dell’imperatore, non ho fatto nulla contro tutti quelli che per tanti anni ci hanno fatto patire tante difficoltà. E gridano: come noi possiamo essere potenti e far esistere ancora i nostri nemici?” E giudica, a questo punto, tutti quelli che sono pronti a rispondere al male con il male e credono che la loro salvezza dipenda dal terrore che possono provocare ai loro nemici. Risponde anche a coloro che lo accusano di non aver mai avuto pranzi sontuosi e neppure accompagnamenti numerosi. “Non sapevo risponde che nostro lavoro è litigare con strateghi e politici per poi avere noi più ricchezza e potere di loro! Se in questo ho peccato perdonatemi, fate vescovo un altro che possa piacere al popolo e lasciate me partire per la vita eremitica.” E finendo la sua omelia, il grande retore saluta tutto ciò che è costretto a lasciare nella capitale:
“ Addio Anastasia che per me porti il nome della devozione. Tu infatti hai risollevato il mio insegnamento, che era ancora oggetto di disprezzo; tu sei la terra della comune vittoria, la nuova Silo, nella quale per la prima volta abbiamo piantato la nostra tenda, che per 40 anni aveva vagato ed era stata portata nel deserto.
Addio anche a te, questo tanto grande ed illustre tempio, la nuova eredità, tu che ricevi dal Logos la tua attuale grandezza, tu, che noi abbiamo reso Gerusalemme da Jebus (Gs 15, 8) che eri.
Addio a voi tutti, templi, che, per le vostre bellezze, venite subito dopo questo, e che occupate ognuno una diversa parte della città e che, come catene, unite ciò che vi sta vicino, ….
Addio Apostoli, bella colonia in un paese straniero, miei maestri di combattimento, anche se non vi ho sovente festeggiato, io che probabilmente porto nel mio corpo per il mio vantaggio (cfr 2 Cor 12, 7) il Satana del vostro Paolo, a causa del quale io ora vi abbandono.
Addio seggio episcopale, questa sublimità dei vescovi esposta all’invidia e al pericolo, consesso di preti onorati per rispetto ed età, e voi tutti, addetti alla liturgia divina intorno alla sacra mensa, che vi avvicinate a Dio che si avvicina.
Addio coro dei Nazarei , armonia dei salmi, veglie notturne, vergini venerabili, donne virtuose, gruppi di vedove e di orfani, occhi di poveri che guardano a Dio e a noi.
Addio case amiche degli stranieri e di Cristo, che mi avete soccorso quanto ero debole.
Addio amanti dei miei discorsi, voi che assieme vi precipitate, voi calami visibili o nascosti, e tu cancello su cui si fa forza, quando quelli si danno spintoni per ascoltare i miei discorsi.
Addio, imperatori e reggia, e quanti prestano servizio nella reggia e vi abitano: se siete fedeli all’imperatore, non so: certo, la maggior parte di voi è infedele a Dio. Applaudite, gridate, levate in alto il vostro oratore. Si è zittita per voi la lingua malvagia e chiacchierona. Non si è arrestata del tutto, però: continuerà, infatti, a combattere per mezzo della mano e dell’inchiostro, ma per ora ci siamo azzittiti.
Addio città grande e amante di Dio: io sarò testimone della verità, anche se questo mio zelo non è conoscibile, perché la separazione ci ha resi più pacati. Accostatevi alla verità, cambiate, anche se è tardi, onorate Dio più di quanto sia vostra consuetudine. Cambiare non è vergognoso, ma persistere nel male è letale.
Addio Oriente ed Occidente, a causa dei quali e dai quali noi siamo stati combattuti: ne sarà testimone colui che vi pacificherà, pur che pochi prendano a modello il mio ritiro. Infatti, non rinunciano a Dio coloro che abbandonano il loro seggio: ne avranno uno nei cieli, uno molto più elevato e più al sicuro.
Su tutti e davanti a tutti voglio gridare: addio angeli custodi di questa Chiesa, che mi assistete quando sono qui e quando parto, se è vero che tutte le nostre cose sono nelle mani di Dio.
Addio trinità, mio principale interesse e motivo di vanto, possa tu essere salvaguardata da quelli che sono qui, e possa tu salvaguardare costoro, il mio popolo: infatti, questo è il mio popolo, anche se avremo altrove la nostra dimora.
Mi possa essere annunciato che tu sei costantemente esaltata e sublimata sia da quello che il popolo dice, sia dal suo modo di vivere.
O figlioletti, custodite per me questo deposito, ricordatevi delle mie lapidazioni.
La grazia del Nostro Signore Gesù Cristo sia con tutti voi. Amen”
E mentre disse queste parole, Gregorio partì dalla capitale, seguito sempre dall’invidia e dall’odio. Andò prima a Cesarea dove fece un’omelia per il suo amico Basilio, morto pochi mesi prima. Poi, pieno di tristezza, andò nella sua patria Arianzo dove passò pacificamente il resto della sua vita, lontano dai poteri e dalle glorie di questo mondo, occupandosi del suo piccolo giardino e della poesia che non cessò mai di sorgere da lui già dalla giovane età. Morì lì nel 389.
La chiesa festeggia la sua memoria due volte, il 25 Gennaio ed il 30 dello stesso mese insieme con l’amico Basilio e Giovanni Crisostomo.