Vita si San Basilio il Grande e Gregorio

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Negli anni in cui cominciò a tramontare
Sant’Atanasio, sole dell’ortodossia cristiana,
due nuove stelle apparvero
all’orizzonte, Basilio e Gregorio di Nazianzo, detto
il teologo. Questi due uomini assai diversi da Atanasio,
avevano in comune con lui la fede ortodossa
e utilizzavano tutto il loro sapere e le loro energie
per la sua difesa. Gregorio e Basilio studiarono la
cultura dell’epoca alla scuola di Libanio, Thespesio,
Imerio e Proesio. Così essi utilizzarono, molto più
di Atanasio, l’inventiva, ma anche l’arte retorica
della lingua e della cultura greca. La lingua greca,
alla luce della loro intelligenza, ma soprattutto della
loro fede, formulò in modo, direi unico, i dogmi
che tanti Padri, prima di loro e anche dopo fino ai
nostri giorni, hanno vissuto, conservando l’antica
caratteristica della lingua di Lisia, di Platone e di
tanti altri poeti, filosofi e letterati. L’antica bellezza
della lingua greca, oso dire, restò integra grazie a
questi due cristiani, frammista sempre ad uno stile
orientale poco “attico”, ma sempre tanto armonico
e puro. Così nel IV secolo questi cristiani superarono
nella cultura, nell’arte retorica e nella scienza
tutti i sofisti pagani ancora esistenti, e non solo
loro, ma anche tutti quelli che li precedettero. Infatti
la lingua e la cultura greca diventarono uno
strumento nelle loro mani, un magnifico strumento
che usato solo con lo scopo d’esprimere l’esperienza
di tanti santi e di tanti Padri che vissero quello che
l’umanità prima ignorava: l’incontro dell’uomo con
Dio nell’unico volto di Cristo, vero Dio e vero
uomo. Ciò determinò una svolta in tutta la storia
umana.


Basilio e Gregorio avevano probabilmente la stessa
età, entrambi infatti nacquero attorno al 329-331 e
studiarono assieme ad Atene.


Il contesto storico culturale di Atene nel IV secolo
Atene, nel IV secolo d.C., aveva perso da tempo la
sua antica posizione politica e militare, mentre
all’epoca in cui era stata occupata da Silla aveva subito
molti danni materiali. Ma la gloria rappresentata
da questa capitale della grecità antica, gli splendidi
monumenti che la ornavano, la grande devozione
che gli innumerevoli pagani ancora conservavano
verso i misteri di Eleusina e l’orgoglio che
tutta la Grecia conservava per questa città, ispiravano
particolare rispetto ai governanti dell’impero
Romano. Le sue scuole erano aperte a chiunque si
dedicasse alla cultura. Il flusso degli allievi non solo
non era calato ma si era pure incrementato perché,
dall’epoca di Adriano, le scuole ateniesi erano sotto
una speciale protezione imperiale.


È certamente vero che in queste scuole non si insegnava
più una grande scienza o filosofia. Il sistema
filosofico neoplatonico cercò vanamente di diffondersi.
Veniva comunque ancora insegnata l’ “inutile”
arte retorica. Così Libanio ed Eunapio, attorno
al IV secolo, c’informano che tali scuole erano indegne
di una vera scienza. L’educazione ad Atene
era ridotta ad una semplice battaglia di parole (logomachia).
Ciò che muoveva tutto era il denaro guadagnato
dai maestri e le tragicomiche liti degli alunni.
Per “pescare” giovani da indirizzare nelle relative
scuole filosofiche venivano inviate delle persone
fino al Pireo e qualche volta anche fino a Sounio.
Per gli studenti si applicava lo stesso sistema oggi
usato per indirizzare i turisti negli alberghi quando
sbarcano in Grecia. In quell’epoca, però, non ci si
limitava a semplici inviti: coloro che avevano già
deciso dove andare a studiare erano minacciati. Alcune
volte gli stessi maestri andavano al Pireo alla
ricerca di alunni. Quando alla fine gli alunni arrivavano
sani e salvi ad Atene, spesso sotto la protezione
del capitano della nave su cui avevano viag-
giato, rischiavano nuovamente di cadere in altre liti
o di venire feriti o uccisi.


Al di sopra di tutto, ogni maestro pretendeva di
avere come alunni tutti i suoi concittadini.
Quando, ad esempio, Eunapio studiava ad Atene,
tutti quelli che erano originari dell’Oriente dovevano
studiare attorno ad Epifanio, gli Arabi attorno
a Diofanto, quelli che avevano origine dal Ponto
dovevano studiare attorno al cosiddetto “divino”
Proesio, presso il quale si riunivano alunni provenienti
anche dall’Asia minore, Egitto e Libia. Ma
questa non era una regola ferrea priva di eccezioni.
Così molti alunni passavano da un maestro all’altro,
generando nuove diatribe. Ognuna di queste scuole
costituiva “compagnie” armate con dei “protettori”
che si sfidavano in sanguinosi incontri, come se
dovessero proteggere la propria patria di provenienza.
Quando la situazione diveniva particolarmente
critica, interveniva il governatore romano
dell’Acaìa che richiamava le due parti contrapposte
a Corinto, ove egli risiedeva. Allora, davanti al governatore,
si teneva una solenne gara retorica, specialmente
se il governatore possedeva la cultura
greca.


A causa di queste inimicizie e per evitare altri disordini,
né i maestri né gli alunni potevano presentarsi
presso gallerie o teatri. Così gli alunni trascorrevano
il loro tempo diurno a giocare a pallone,
mentre di notte ascoltavano “dolcissime cantanti”.
Molti, per “finanziare” tali divertimenti, rapinavano
le case dei cittadini ateniesi; altri cadevano
nelle mani degli usurai.


Malgrado ciò, le scuole di Atene erano molto importanti
per tutto il mondo antico. In quelle sedi
non s’insegnavano più i grandi sistemi filosofici e
neppure una vera educazione, almeno fino al V secolo
(periodo in cui cambiarono molte cose). Si
continuava ad insegnare la lingua di Platone, di Aristotele
e di Demostene, nel rispetto dei nomi e
delle memorie del passato, in un ambiente “pulito”
e alla presenza di magnifici monumenti, in quel
tempo ancora intatti. Queste attività si svolgevano
in un’atmosfera magica, che influiva positivamente
verso la città, divenuta simbolo per la cultura mondiale.
Atene era paragonabile a quei vecchi che,
avendo fatto in gioventù azioni meravigliose, alla
fine della vita traggono una soddisfazione particolare
nel narrare la loro gloriosa esperienza davanti
ad altri che, a loro volta, ritengono assai utile
ascoltarli.


Così nel IV secolo, chi si recava ad Atene ammirava
i monumenti che conservavano l’antico splendore
e ascoltava i maestri che ricordavano incessantemente
quella grandezza. I teatri pubblici erano
deserti, ma in compenso, i più ricchi tra i sofisti costruivano
dei teatri in casa loro, perfette imitazioni
degli edifici nei quali un tempo abitavano le muse.
E lì, assieme ai loro amici, parenti e alunni applaudivano
i capolavori dei tempi antichi. Se molti studenti
sprecavano il loro tempo nei divertimenti,
non mancavano anche quelli che studiavano e si
svagavano facendo solo gite in altre città, fino in
Acaìa, sede del governatore romano. Olimpia,
Ismia e altre città, sedi dei giochi atletici, richiamavano
ancora un gran numero di persone.
Atene, non dobbiamo dimenticarlo, conservava le
tradizioni dell’antica democrazia, riuscendo ancora
ad influenzare le abitudini di molti.


Gli imperatori continuavano a rispettare la democrazia
e accettavano volentieri le sue onorificenze.
Costantino Magno voleva essere chiamato “stratega
(= generale) degli Ateniesi”, e aveva aumentato i
privilegi delle scuole filosofiche ateniesi, esentando
dalle tasse molti suoi maestri. L’imperatore riforniva
Atene con grandi quantità di grano perché
fosse donato alla popolazione. Costanzo, per incassare
delle tesse regalò alla città perfino delle isole.
Ad Atene i cristiani non erano pochi, ma la città era
considerata l’ultimo rifugio dell’antico culto,
dell’antico modo di vita, e moltissimi pagani vi si
recavano con devozione, né più né meno come i
cristiani si facevano pellegrini per visitare Gerusalemme.
Infine, Atene alla metà del IV secolo conservava
ancora quel carattere descritto dallo storico Luciano
alla fine del II sec. nel suo libro Nigrinos o intorno
all’etica filosofica, dov’egli loda la libertà, la vita
tranquilla e senza invidie, e l’astensione dalle preoccupazioni
che lì si viveva. Luciano assicurava che
abitare ad Atene, in compagnia della filosofia e con
la possibilità di conservare l’etica pura, era per chi
disdegnava la ricchezza e ad amava la vita ascetica.
Per cui così concludeva: “Chi però ama la ricchezza,
si fa conquistare dall’oro, misura il piacere
della vita con la porpora e l’autorità, non ha mai as-
saporato la libertà né ha provato la libertà della parola
… Tale uomo, vada a vivere a Roma…”.
Basilio e Giuliano l’Apostata


In quest’ambiente studiarono Basilio e Gregorio,
due amici che condividevano tutto. Essi erano
“un’anima che legava due corpi”, come scrisse più
tardi San Gregorio.


In quell’epoca si trovava ad Atene anche Giuliano
(l’apostata) giunto con uno scopo differente da
quello dei due amici, non per acquisire l’antica filosofia
ed oratoria a servizio e difesa della fede ma
per fortificare le sue convinzioni pagane. In
quell’epoca, nessuno sospettava che Giuliano si sarebbe
trasformato in nemico del cristianesimo dal
momento che aveva ricevuto il Santo Battesimo e
per parecchi anni mostrava un acceso zelo verso la
nuova religione. Il suo cambiamento fu progressivo.
Inizialmente gli sorse uno strano pensiero.
Vedendo la decadenza della sua epoca, a differenza
dell’epoca classica da lui considerata perfetta, fu indotto
a concludere che il Cristianesimo fosse la
causa di tale decadenza o che il Cristianesimo non
avrebbe potuto contrastarla. Partendo da ciò giunse
a una conclusione: tutta la decadenza sarebbe avvenuta
quando cominciò a venire meno l’antica religione
e le antiche abitudini di vita. Era dunque
queste che bisognava ristabilire per migliorare tale
situazione. Questi ragionamenti erano respinti da
Basilio e Gregorio. Sembra che Gregorio avesse
capito le intenzioni di Giuliano e lo si deduce leggendo
la Seconda invettiva contro il re Giuliano. Ecco alcuni
significativi passi:
“Avevo capito le intenzioni di Giuliano quand’ero
con lui ad Atene… Vi era venuto poco dopo gli
sconvolgimenti politici che causarono la morte di
suo fratello e dopo averne chiesto il permesso
all’Imperatore.


Due erano i motivi per questo suo viaggio: il primo
e più onorevole, era quello di conoscere la Grecia e
le sue scuole; il secondo, più nascosto e noto a pochi,
era quello di consultare il proprio destino
presso sacrificatori ed impostori là residenti, poiché
la sua empietà non era ancora libera di manifestarsi.
Ora so d’essere stato un buon indovino riguardo a
quest’uomo, sebbene io non sia uno di coloro che
fin dalla nascita hanno ricevuto tali poteri. Mi rese
indovino la stranezza del suo comportamento e il
suo eccessivo fare smodato (…). Infatti non mi
sembrano essere indizi per nulla buoni il collo tentennante,
le spalle scosse da un tremito continuo e
come in cerca di un contrappeso, gli occhi roteanti
che si muovevano qua e là e guardavano come in
preda alla follia, i piedi in continua agitazione e sui
quali egli cambiava spesso posizione, le narici che
soffiavano insolenza e disprezzo, le espressioni ridicole
del volto che mostravano lo stesso sentimento,
le risate smodate e gorgoglianti, i cenni di
assenso e di diniego privi di logica, il parlare interrotto
dal respiro soffocato, le domande prive di ordine
e d’intelligenza, le risposte per nulla migliori
che si accavallavano le une sulle altre e mancavano
di equilibrio non procedendo neppure secondo
l’insegnamento impartito nelle scuole.


Perché dovrei descrivere le cose punto per punto?
Prima che facesse quello che fece, lo vidi come poi
si fece conoscere. E se fossero accanto a me alcuni
fra coloro che allora stavano assieme a me e mi
udirono, non avrebbero difficoltà a rendermi testimonianza:
a loro, dopo che ebbi visto tali atteggiamenti,
subito dissi questa frase: ‘Quale mare nutre
l’Impero romano?’ Lo preannunciai augurandomi
d’essere un cattivo profeta. Infatti sarebbe stato
meglio così, piuttosto che il mondo si riempisse di
tali mali, e apparisse un mostro quale non ce n’era
mai stato prima di eguale, nonostante le molte
inondazioni di cui si parla, i molti incendi, i terremoti
e gli abissi e, ancora, nonostante uomini più
crudeli e straordinarie belve formate dai diversi
elementi inventati dalla natura”.
Basilio e Gregorio presero le distanze da Giuliano,
sin dall’inizio rimanendone lontani per tutta la durata
del suo regno. Il fratello di Gregorio, Cesareo,
medico anche se cristiano, rimase il medico più
amato dall’Apostata, il quale provò con molti mezzi
a farlo divenire pagano. I due amici non si esposero
mai a tale tentazione.


Basilio, dopo la sua partenza da Atene, insegnò arte
retorica ed esercitò la professione di avvocato a
Cesarea, sua città natale (città greca molto fiorente,
nella quale il Cristianesimo si sviluppò particolarmente).
Nonostante riscuotesse molto successo

nell’esercizio delle due professioni di avvocato e
maestro, le abbandonò velocemente. Sull’esempio
dei genitori e della sorella e seguendo il suo desiderio
e la tendenza del proprio carattere, dedicò a Dio
tutte le conoscenze fino allora acquisite. Questo lo
aprì alla fede della quale aveva avuto esperienza sin
da bambino nella casa paterna. All’età di 27 anni ricevette
il battesimo nella metropoli di Cesarea, davanti
a tutti i suoi concittadini, con la serietà di chi
assume una missione per tutto il mondo cristiano.
Subito dopo, Basilio lasciò ogni preoccupazione del
mondo, donando tutti i suoi averi ai poveri per
partire alla volta dei principali luoghi sacri che si
trovavano in città e per i deserti della grande Chiesa
orientale, divisa in quel tempo dalle eresie di Ario.
Per due anni girovagò dall’Egitto alla Palestina, in
Siria e Mesopotamia, ascoltando teologi, discutendo
con filosofi, ammirando gli eremiti e accrescendo
in sé l’entusiasmo e la fede alla vista dei
luoghi santificati dagli asceti presso i quali avvenivano
molti miracoli. Comprese per esperienza e
fede i dogmi di Nicea e acquisì un’autentica devozione
per il grande patriarca egiziano: Atanasio. In
Egitto conobbe anche gli eremiti Antonio e Paolo,
condannando gli eccessi di alcuni monaci e studiando
pure l’organizzazione dei monasteri cenobitici.
Ritornato in patria, praticò quanto visto e studiato,
scegliendo per tale scopo una località nella provincia
del Ponto. In una epistola Basilio, rivolgendosi
all’amico Gregorio, si doleva di occuparsi ancora
delle “faccende del mondo” nel luogo dove viveva:
“Quand’ho lasciato le vane speranze che nutrivo
nei tuoi riguardi [la vita monastica che Gregorio
non voleva ancora abbracciare – ndr], partii per il
Ponto alla ricerca di un luogo in cui vivere. Qui
Dio mi mostrò un luogo adatto a quanto cercavo,
come quello che entrambi sognavamo, quando
nelle ore di riposo giocando abitualmente con la
nostra fantasia volevamo vivere assieme la vita
monastica. Adesso un tale luogo è per me realtà. È
una montagna alta, tutta verde e ricca d’acqua cristallina
situata a settentrione; ai suoi piedi si apre un
campo innaffiato da venti piovosi provenienti dalla
montagna; è circoscritto da tante diversità di alberi
e piante e somiglia all’isola di Kalypso che Omero
ammirava, come la più bella di tutte”.
Comparando quella località eremitica con l’isola
omerica di Kalypso, paragonò se stesso ad Alcmeona
che trovò pace arrivando nelle isole Enichades.
Con la sua personale esperienza Basilio divenne
colui che perfezionò il “Tipikon monastico” seguito
dai monasteri ortodossi. Più tardi in questa località
giunse pure il suo amico Gregorio, il quale non
avendo la stessa stabilità caratteriale di Basilio, non
vi rimase per molto.


In seguito, Basilio partì alla volta di Costantinopoli
per aiutare il vescovo di Ankara in una discussione
contro Eunomio, un giovane e famoso seguace
dell’eresia di Ario. In seguito, sotto il regno di Giuliano,
constatando che la fede cristiana vacillava più
per Eunomio che per gli ariani, cercò di partecipare
più attivamente alla vita della Chiesa: inizialmente
come semplice lettore poi come sacerdote. In seguito,
contemporaneamente al suo amico Gregorio,
fu consacrato dal padre Vescovo di Nazianzo.


Nel frattempo Giuliano morì e i due amici gioirono
assieme perché la liberazione del Cristianesimo dal
suo più temibile nemico. Anche Gregorio scrisse
delle omelie contro Giuliano mentre Basilio divenne,
con la sua parola, un’autentica spada di
fuoco che manifestava la forza e la profondità della
sua anima.

La grande arte retorica mostrata da san
Basilio, mosse l’ammirazione del suo
vecchio maestro, il pagano Libanio,
ma provocò anche grande gelosia,
odio e malevolenza nel Vescovo di Cesarea,
Eusebio. Basilio allora trovò rifugio nel suo
monastero, nel quale, però, rimase ben poco:
riuscì infatti a tornare a Cesarea molto presto,
dopo aver sciolto la diffidenza del suo
vescovo. E così, forte della sua fede e della
sua conoscenza, divenne un uomo di grande
cuore, impegnato in una notevole attività filantropica.
Quando la situazione economica
si complicò, a causa d’una terribile carestia
che colpì la Cappadocia e il Ponto diffondendosi
pure nei paesi vicini, Basilio consolò
il popolo, spingendo i ricchi a dare il loro
aiuto a sostegno di quelli che non avevano
niente da mangiare e sacrificando egli stesso,
per tal scopo, tutta la ricchezza che gli era
rimasta, senza fare distinzione tra i bisognosi,
aiutando e consolando allo stesso modo
ariani, cristiani, pagani ed ebrei. In questa
terribile circostanza, Basilio pronunciò la sua
famosa omelia Nel tempo della fame e della
siccità in cui sono concentrate tutte le ricchezze
della sua conoscenza e dell’arte retorica,
al fine di sollecitare lo spirito della carità.
Non gli bastarono gli insegnamenti e le
immagini di carità tratte dalle Sacre Scritture,
ma – sapendo che si rivolgeva ad esseri
umani che conoscevano la lingua greca e vivevano
al modo greco – disse fra l’altro:
«Dobbiamo vergognarci davanti alla carità dei
greci. Per alcuni di loro la carità era una legge
che prevedeva la creazione di mense comuni
e di case comuni per il popolo». Le
mense comuni degli Spartani, citate da San
Basilio, non s’ispiravano certo alla carità. Ma
il Santo, si comportava come un generale
che, trovandosi in una situazione disperata,
pur di difendersi usava delle costruzioni
create per altri scopi.

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Eusebio morì attorno al 370 e Basilio ne divenne
il successore. Si trovò, così, in un posto
di guida nella Chiesa. Qui non dovette
certo affrontare quei pericoli che resero
drammatica la storia di Atanasio, ma, con la
sua virtù, la sua fede e la sua esperienza cristiana,
si conquistò il rispetto degli uomini
del suo tempo e di chi, oggi, ne rilegge la vita. San Basilio è stato un vero vescovo del
Vangelo, un padre per il popolo, un amico
per i disgraziati, stabile nella sua fede, infinito
nella bontà e nella carità. Lui stesso divenne
povero; e, mentre la maggioranza dei vescovi
della Chiesa non brillavano per la virtù della
povertà, “per lui una ricchezza era il non
possedere niente e la croce, con la quale
soltanto condivise la sua vita reputandola
più preziosa di molte ricchezze. Infatti, neppure
se si volesse, si potrebbe entrare in possesso
d’ogni cosa, mentre si può riuscire a
disprezzare tutto e mostrarsi meglio di tutti.
Pensando a ciò e comportandosi di conseguenza,
non ebbe bisogno di altari né di una
vana gloria né di pubbliche proclamazioni…
Infatti gli interessava essere il migliore,
non apparire tale. Non abitava in una botte e
nel mezzo di una piazza, così da vivere
allegramente alle spalle di tutti, facendo della
povertà un nuovo sostegno; egli era povero e
per nulla raffinato, senza secondi fini e,
avendo accettato di privarsi di tutti i beni
precedentemente posseduti, attraversava leggero
il mare della vita. In lui era ammirevole
il domino di sé e la capacità d’accontentarsi
di poco; [era ammirevole] il fatto che non si
lasciava sopraffare dai piaceri né condurre
dal ventre, padrone crudele e ignobile. Chi
più di lui era indifferente al cibo e, senza
esagerare, pure razionato? Infatti l’abitudine
di rimpinzarsi fino alla nausea la lasciò agli
uomini privi di senso, a quelli la cui vita è
servile e rivolta verso il basso. Non riconobbe
l’importanza di nessuna delle cose
che, una volta ingoiate, hanno tutte lo stesso
valore, ma in vita si mantenne con l’ indispensabile;
finché fu possibile; come unico
lusso conosceva quello di non mostrarsi dedito
al lusso e non aveva per tale scopo bisogno
di più cose; guardare ai gigli e agli uccelli,
la cui bellezza è priva di artifizi e che
trovano cibo casualmente, secondo la nobile
esortazione del mio Cristo, che a causa nostra
si è impoverito nella carne, per rendere
noi ricchi nella divinità. Conformandosi a
questo esempio, egli possedeva una sola tunica
e un solo mantello; aveva l’abitudine di
dormire steso a terra, di vegliare e di evitare i
bagni: questi erano i suoi motivi di orgoglio.
Il cibo a lui più gradito era pane e sale, insolita
squisitezza; la bevanda semplice e abbondante
era quella che le fonti offrono senza
che ci si affatichi”1(GREGORIO DI NAZIANZO, Orazione. 43, 27.). Per abbellire Cesarea,
spendeva però molto, costruendo, assieme
ad altre cose, case per i poveri, ospedali, ecc.
Gregorio il teologo chiamava tutte queste
costruzioni “nuova città, erario di pietà, comune
riserva dei possidenti, in cui viene depositato
l’eccesso della ricchezza, oltre che
già l’indispensabile, su esortazione di quello,
liberato dalle tarme e per non fare contenti i
ladri, evitando gli attacchi dell’invidia e le vicende
del momento; in quella città la malattia
è sopportata con filosofia, la sciagura è
considerata una fortuna e la compassione è
messa alla prova”2(Orazione n. 43, 28).
Tutte queste virtù pacifiche e umanitarie del
vescovo di Cesarea stavano pure assieme a
un coraggio che può trovare una giustificazione
solo nella fede in Cristo.
Nel 372 l’imperatore ariano Valente ordinò
al governatore Modesto di costringere pure
Basilio con ogni mezzo a divenire ariano. Il
governatore invitò il vescovo e gli disse:
“Come osi, tu da solo, metterti contro il potente
imperatore?”. Quando Basilio gli chiese
di spiegare cosa intendeva dire, Modesto rispose:
“Solo tu rifiuti di accettare la confessione
dell’imperatore che tutti hanno accettato”.
Basilio rispose: “L’imperatore è solo 
una creatura di Dio, non Dio per grazia, e io
non accetterò mai di adorare una creatura,
neppure il governatore”. Modesto si arrabbiò
molto e gridò: “Come puoi non avere paura
di questa potenza (dell’imperatore)?”. Basilio
rispose: “Perché mi deve spaventare? Cosa mi
può fare?”. “Qualcosa delle tante in suo potere”,
rispose Modesto. “Concretamente quali


sono queste cose?”, chiese Basilio. “Esilio,
tortura, morte”, rispose Modesto. Minacciami
con qualcos’altro”, osservò Basilio, “perché
nulla di quanto hai detto mi spaventa. Confiscare
tutti gli averi non può dare preoccupazione
a chi ha solo due vecchi vestiti e alcuni
libri; l’esilio per me non esiste perché in
ogni luogo vada mi considero un pellegrino
senza patria; le torture non possono essere
mai rette da un corpo debole che morirà al
primo colpo; la morte soddisferà tutti i miei
desideri perché mi porterà più vicino a Dio”.
Sorpreso per questa risposta Modesto disse:
“Prima d’ora, nessuno ha proferito parole così
piene di coraggio al mio cospetto”. Basilio
osservò: “Forse non ti è mai capitato d’ incontrare
un vescovo”, e continuò, “Noi siamo
sempre umili e pacifici non solo di fronte
al re, ma pure di fronte al più piccolo tra
tutti gli esseri umani. Quando però si tratta
della nostra fede in Dio, il fuoco, la spada, gli
esili, le unghie che tagliano le carni, ci provocano
solo piacere, non paura. Riferisci
queste parole al cospetto del re”. Così Modesto
e l’imperatore furono costretti a lasciare
in pace il sant’uomo.
Ancor più ammirabile fu l’azione per trasformare
la grande cultura ricevuta ad Atene
in un linguaggio comprensibile a tutti, che
istruisse il popolo di Cesarea e innalzasse
verso Dio tutti i fedeli, parlando loro della
natura e delle mirabili realtà della creazione.
Troviamo descritto tutto ciò nelle nove
Omelie sull’Esamerone di Basilio. In questi
scritti, esistono certamente alcune credenze
riguardo ai fenomeni naturali che sono state
superate dalla scienza attuale, ma esistono
anche tante precisazioni sulla fede e delle
splendide descrizioni. In ogni parte delle sue
opere si nota notevole cura per mostrare
l’esistenza di Dio; grande immaginazione per
salire fino all’estrema bontà del creatore;
grande sforzo per portare la retta fede e
grande delicatezza nelle espressioni perché
gli altri possano amare tutto questo.
Medesimo stile caratterizza anche gli altri discorsi
di Basilio, le sue epistole e i suoi scritti.
Essendo un amante dell’antica retorica e dell’antica
poesia, voleva trasmettere l’amore per
i capolavori della letteratura greca anche ai
giovani cristiani che vivevano nel mondo ellenico
di Europa, Asia e Africa. A tal fine,
scrisse per loro un discorso dal titolo: Ai
giovani per poter trarre utilità dalle parole
greche, per mettere in contatto il Cristianesimo
con l’ellenismo.
All’inizio, parlando delle verità della fede cristiana,
affermò che è il Cristianesimo è superiore
rispetto alla cultura greca, come l’anima
è superiore al corpo. Ma, secondo Basilio, la
cultura greca può preparare i giovani ad accettare
la verità del Cristianesimo: “Come
coloro che vogliono dipingere, prima preparano
con alcune piante la base del loro dipinto,
allo stesso modo, affinché non si elimini
del tutto in noi l’idea della bontà, ci
prepariamo esternamente ad accettare gl’insegnamenti
mistici e, come siamo abituati a
vedere il sole rispecchiato nell’acqua, così
possiamo vedere anche la luce della fede”.
In tal modo, mentre pose l’idea che la cultura
greca è un ornamento per l’anima umana,
aggiunse con acutezza che non dobbiamo
dare la stessa importanza a tutto ciò
che hanno scritto i poeti e i retori: “Tutti
quelli che studiano le opere degli uomini
puri le devono amare, imitare e cercare di assomigliare
a loro; quando però arrivano allo
studio della cose cattive, devono evitare di
ammirarli, tappandosi le orecchie con la stessa
intensità di Ulisse mentre sentiva il canto
delle Sirene. Perché trovare qualcosa del genere
nelle parole di persone malvagie, conduce
a strade diverse e lontane dalla fede”.
In seguito, pose il suo amore per la cultura
greca mostrando che l’arte di Omero è piena
di lodi per la propria virtù. Consigliando i
cristiani di leggere Solone, Prodico, Euripide,
Platone il santo continuò: “In quasi tutti, la
loro parola è saggia e i loro scritti sono de-
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gni d’ogni lode”. Non gli bastarono solo le
parole dell’antico ellenismo, ma considerò
degne d’imitazione molte azioni, portando
l’esempio delle virtù di Pericle, Socrate, Euclide,
Clinia e Alessandro Magno, virtù che si
trovano in accordo con i principi del Cristianesimo.
Nell’opera ritornò nuovamente a distinguere
fra libri utili e inutili mostrando
molto saggiamente quanto i cristiani devono
cogliere per l’educazione al di fuori del Vangelo:
“Perché tutti quelli che con sforzo e fatica
riuniscono tutte le cose utili, assomigliano
ai grandi fiumi le cui acque sono arricchite
da molti affluenti”.
Certo quest’uomo, amante di Dio, non esitava
a mandare molti suoi allievi presso il
pagano sofista Libanio, pregandolo d’insegnare
loro la bellezza della parola, mentre
egli stesso li avrebbe guidati alla conoscenza
della vita in Cristo; sicurezza che può avere
solo un uomo che vive il Cristianesimo.
Altri suoi discorsi (la sua importantissima
teologia verrà trattata successivamente in un
apposito articolo) trattano i più svariati temi,
e si distinguono tutti per il medesimo stile.
San Basilio è anche l’uomo della pietà e
dell’amore verso il prossimo. A queste virtù
ha dedicato molte energie, cercando di ammorbidire
i cuori duri al fine di convincere
tutti a stendere la mano per aiutarsi reciprocamente.
Alzando lo sguardo al cielo, tese
anche la mano in aiuto di ogni infelicità perché
il suo scopo era contemporaneamente
quello di vivere, insegnare e consolare. Le
sue parole al popolo trassero origine e forza
dalla vita. Pur essendo debole nel corpo, non
smise mai d’insegnare e viaggiare per aiutare
tutti. Quando morì, il primo gennaio del
379, giorno in cui ancor oggi la Chiesa ortodossa
festeggia la sua gloriosa memoria,
partecipò alle esequie l’intera popolazione
della provincia. Pagani e giudei assieme ai
cristiani piansero il benefattore di tutti, senz’alcuna
distinzione. L’afflusso della folla accorsa
era così consistente che, nell’accalcarsi
della massa, molti rimasero senza vita. In
quel giorno, coloro che trovarono la morte
vennero considerati beati perché poterono
essere ricordati assieme ad un uomo di tale
santità, da essere denominati epitafia thimata,
come ci riferirono le fonti pagane
giunte fino ai nostri giorni.
Anche il popolo in Grecia ricorda, a suo
modo, il grande vescovo di Cesarea. La sua
proverbiale generosità e benevolenza ha dato
vita alla leggenda d’un uomo che distribuiva
doni ai bimbi bisognosi. Tale ricordo, giunto
fino ai nostri giorni, identifica l’uomo generoso
con… il consumistico babbo natale!
Si potrebbe credere che quest’accostamento
sia un modo blasfemo o ridicolo per ricordare
la figura del santo. Ma questo è il popolo:
può ammirare i grandi uomini, solo
abbassandoli al proprio livello. Non è quindi
giusto accusare atteggiamenti o persone che
per lo meno ricordano ancora questo
“sommo astro” della Cristianità.
Si potrà dire ugualmente per molte persone
di cultura in Occidente che, magari, ne ignorano
la vita e le opere?

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