Introduzione del mio nuovo libro: “La “follia” di Dio e la “saggezza” dell’uomo. Percorsi fra teologia e spirito dell’epoca”

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Sono vissuto, fin bambino, all’interno della Chiesa ortodossa. Mio padre, sacerdote originario del Peloponneso, si è trovato a esercitare il suo ministero inizialmente a Volos, città in cui sono nato. La mia prima parrocchia fu – la ricordo ancora – quella di san Costantino. Ogni giorno mia madre mi parlava di Cristo e mi insegnava a pregare. L’esperienza accanto a lei è stata unica. Dopo Volos, fu la volta di Salonicco e, in seguito, Atene, chiesa di san Pantaleone di Ilissos, dove, ancora oggi, dopo lunghi anni, mio padre officia instancabilmente. La parola catechetica della presbitera[1] Theoni Karalì, mia madre, le calde omelie di mio padre che ascoltavo assieme agli altri fedeli, la vita liturgica, l’insegnamento patristico, le diverse parrocchie ortodosse in cui sono vissuto: tutto questo è diventato una guida illuminante e determinante per la mia esistenza e la mia esperienza.

Più tardi, raggiunti i vent’anni, sono partito per l’Italia, un paese non ortodosso. Lì ho cominciato a servire, nella chiesa di san Nicola a Genova, in qualità di cantore e di insegnante di lingua greca. L’incontro con Annarita Cagnazzo, mia moglie, di fede cattolica, mi ha messo a confronto con un mondo che ignoravo, obbligandomi a ridefinire me stesso: “Cosa mi rende diverso dai cattolici? Cosa posso offrire alle persone che si sforzano di vivere il cristianesimo con coerenza, ma non conoscono i Padri della Chiesa?”. Mi sono messo, così, a studiare le due tradizioni, leggendo opere che parlavano sia di Oriente sia di Occidente ed evidenziavano consonanze e divergenze tra queste varianti della fede cristiana. Il modello era teorico, ma mi aiutava a definirmi: io venivo sicuramente dall’Oriente, da una Chiesa che aveva una tradizione ricchissima in ordine ai Padri.

Un giorno, nel tempio ortodosso di san Nicola in Genova, entrò per pregare uno strano personaggio, uno straniero. Era giovane e di bella presenza. Lo vidi il lunedì santo, mentre cantavo: egli faceva continue e profonde prostrazioni, e pregava assorto, concentrato, senza guardarsi attorno. Mi colpì profondamente. Quando finì la funzione mi avvicinai. Era greco – mi disse –, di Salonicco, ed era entrato in quella chiesa perché voleva celebrare le festività pasquali assieme ai suoi fratelli ortodossi, in un paese eterodosso. I suoi occhi avevano una sincerità disarmante, il suo sguardo era simile a quello di un bambino. Chi era in realtà? Perché era venuto in Italia e perché era entrato nella nostra chiesa? Gli domandai: «Dove abiti?». Mi rispose: «Non abito da nessuna parte: non ho soldi per andare in albergo». Il suo vestiario era elegante: non sembrava sicuramente quello di un “povero”. Non aveva denaro e tuttavia non chiedeva nulla. Gli dissi: «Vieni, fratello, a casa mia. Ti ospito io». Mi fece un cenno d’assenso e mi seguì silenziosamente. Ogni giorno partecipavamo alle funzioni e poi parlavamo di teologia, di ortodossia, dei Padri… Mi confidò: «Sai, vado spesso al Monte Athos: credo che la tradizione athonita possa essere d’aiuto a tutti, a tutto il mondo». Annarita, che all’epoca era ancora la mia fidanzata, ascoltava i nostri discorsi; anche lei rimase fortemente impressionata dallo strano pellegrino, dal suo atteggiamento e dalle sue pronte e sapienti risposte. Ricordo un giorno in cui mi esprimevo in termini assai negativi nei confronti della Chiesa ortodossa, perché incapace di aiutare, come avrebbe dovuto, i poveri e gli stranieri. Alzò gli occhi, mi guardò e mi disse: «Giorgio, non so perché sei cosi critico. Io sono venuto a Genova come straniero, ho trovato un tempio ortodosso, qualcuno mi ha ospitato… Per te questo non è nulla? Sappi che per me è tutto». Festeggiammo insieme la Pasqua e arrivò il momento, per lui, di partire. Mi guardò e mi disse: «So che ti piace la teologia. Per questo ti voglio regalare l’unico libro che porto nella mia borsa. Me l’ha donato un padre spirituale del Monte Athos. Tieni…». Aprì la sua sacca e mi porse un libro di san Giovanni Damasceno: Esposizione esatta della fede ortodossa, nell’edizione pubblicata a Salonicco nel 1989 dalla casa editrice Pournara. Partì e non lo vidi mai più. Chi era? Dove era andato? Non l’ho mai saputo!

Uno strano pellegrino – nella mia vita ne avrei incontrato anche altri –. E un libro patristico. Lo divorai. Dopo quella lettura, cominciai a comprare molti altri testi patristici. Nell’arco di poco tempo quell’unico libro si trasformò in “molti libri”, veicoli di uno spirito che avrebbe cambiato la mia vita, i miei pensieri, la definizione di me stesso.

Poco tempo dopo conobbi padre Giovanni Romanidis e padre Massimo Lavriotis, che vive ora a Cambridge. Il libro del Damasceno mi aiutava a capire ciò che essi mi spiegavano. Un giorno padre Massimo mi disse: «Sai, Giorgio, Massimo il Confessore scrive in una sua Lettera: “Non dirò nulla di mio, dico ciò che ho appreso dai Padri”[2]. Lo stesso concetto ripete il Damasceno[3]. E non si tratta sicuramente, specie in questo secondo caso, di un modo di dire, essendo la pura verità: Damasceno copia i Cappadoci relativamente alla Trinità e copia Massimo il Confessore nella sua cristologia, usando le sue stesse parole».

«Nulla di mio». L’espressione mi fece molta impressione, specie in un’epoca, la nostra, in cui vi sono molti pensatori che si sforzano di spacciare le loro proprie idee come pensiero dei Padri e che dunque disorientano la vita di tanti, come hanno disorientato la mia, fino al giorno della visita di quello strano pellegrino.

«Nulla di mio». Se tale era l’intento di Massimo il Confessore e di Giovanni di Damasco, perché non poteva diventare anche il mio? È stata la spinta per la scrittura di queste pagine… Anch’io ripeto, dopo tanti secoli, le stesse identiche parole: «Nulla di mio». Tutto quello che il Lettore leggerà, per quanto strano o attuale gli possa sembrare, non è un mio pensiero, ma quello dei Padri teofori, un pensiero che, sia in Oriente sia in Occidente, è caduto in oblio, sostituito da teorie estranee alla loro esperienza. Proprio in ragione di ciò, alcune espressioni che si incontreranno in quest’opera potranno creare problemi, sollevare perplessità, indurre obiezioni nell’odierno Lettore, il quale ha imparato l’Ortodossia da manuali di stampo filosofico, preoccupati più dell’ontologia che della teologia o, ancora peggio, tentati di confondere il problema ontologico, che appartiene all’ambito della filosofia, con l’esperienza dei Padri teofori. La logica, però, che sottendono queste diverse materie è completamente diversa… Invito, pertanto, il Lettore a non trarre conclusioni affrettate e ad attendere la fine del libro: gli ultimi capitoli rispondono alle domande che spontaneamente si affacciano fin dai primi. Quanto a me, credo fermamente che per l’uomo moderno, il quale lotta per superare le crisi che di volta in volta tormentano la società, la feconda offerta teologica dei Padri – la nuova antropologia che propongono – sia forse l’unica risposta possibile. La teologia dei Padri non si rivela e non è una fuga da questo mondo ma, al contrario, essa ci offre un aiuto insostituibile per orientarci nel secolo presente. I problemi che i Padri risolvono non sono problemi astratti, ma riguardano l’esistenza reale di ogni uomo, in qualunque parte del pianeta egli abiti e qualunque fede professi: di ogni uomo che si sforza (spesso senza riuscirci) di capire quale sia il suo scopo esistenziale reale o la sua vera libertà; di ogni uomo che desidera vincere la corruzione e la morte.

Vorrei, per concludere, ringraziare il monaco e amico Massimo Lavriotis che, con la sua competenza patristica, mi è stato di aiuto fraterno nella corretta comprensione dei testi dei Padri che ho inseriti nel mio testo. Al Lettore, giudice dello sforzo compiuto, il consueto augurio: Buona lettura!

Georgios I. Karalis

[1]Così viene chiamata la moglie del sacerdote o presbitero.

[2]Massimo il Confessore, Lettere, XV, PG 91, 544D (ἐμὸν μὲν οὐδὲν ἐρῷ παντελῶς· ὅ δὲ παρὰ τῶν Πατέρων ἐδιδάχθην, φημὶ).

[3]¹Dialectica, prologus: Ἐρῶ δὲ ἐμὸν μέν, ὡς ἔφην, οὐδέν (PG 94, 525A); Dialectica, II: Ἐρῶ τοιγαροῦν ἐμὸν μὲν οὐδέν (PG 94, 533A).

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